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Infezioni urinarie: perché alcune donne non riescono a liberarsene e cosa possono fare davvero

Capire quando e come usare l’antibiotico, riconoscere l'importanza dei sintomi e imparare a gestirli

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Per molte donne, la cistite non è un episodio isolato ma una presenza ricorrente, fastidiosa e talvolta debilitante. Si presenta con sintomi familiari – bruciore durante la minzione, bisogno impellente di urinare, sensazione di peso nella zona pelvica – e spesso riappare dopo poche settimane dalla scomparsa. In alcuni casi, diventa una condizione cronica che influenza la qualità della vita, l’umore, la vita sessuale e persino le scelte quotidiane.

Uno degli interrogativi più frequenti è: perché alcune donne non riescono a liberarsi dalle infezioni urinarie, nonostante le cure? La risposta è complessa e non esiste un’unica causa. In molti casi, le recidive derivano da un mix di fattori predisponenti: anatomici, ormonali, comportamentali o legati a una gestione terapeutica non sempre adeguata. È importante chiarire fin da subito che non tutte le cistiti sono uguali, e che non sempre è necessario – o utile – ricorrere immediatamente agli antibiotici. In fase acuta, alcuni sintomi possono essere gestiti con trattamenti sintomatici – e in merito i chiarimenti di Dimann sulla tachipirina per la cistite possono risultare utili – a patto di conoscerne le modalità di utilizzo corrette e i limiti di efficacia.

Il paracetamolo, infatti, può offrire un sollievo temporaneo dal dolore e dal senso di bruciore, senza interferire con eventuali terapie successive. Ma è solo uno dei tasselli di una strategia che dovrebbe essere sempre personalizzata e guidata da una diagnosi accurata. Affidarsi all’autodiagnosi o peggio ancora all’automedicazione rischia di cronicizzare il problema, alimentando una spirale difficile da interrompere.

Una delle cause principali delle infezioni urinarie ricorrenti è la colonizzazione persistente del tratto urinario da parte di batteri, spesso Escherichia coli, che riescono a resistere alle terapie standard. In altri casi, invece, l’infiammazione non è di origine infettiva ma può derivare da irritazioni meccaniche, squilibri del microbiota o problemi posturali e muscolari. È dunque fondamentale distinguere tra cistite batterica, infiammatoria o post-coitale, evitando trattamenti “a scatola chiusa”.

Gli esami delle urine e l’urinocoltura con antibiogramma restano strumenti imprescindibili per una diagnosi corretta. In presenza di recidive frequenti – più di tre episodi l’anno – i medici possono proporre accertamenti più approfonditi, come l’ecografia, l’esame del residuo post-minzionale o, in alcuni casi, visite urologiche o ginecologiche specialistiche.

Tra i fattori di rischio sottovalutati ci sono le abitudini quotidiane. L’idratazione scarsa, la stitichezza cronica, l’utilizzo di detergenti aggressivi, il fumo e l’abuso di alcol possono compromettere le difese naturali delle vie urinarie. Anche l’uso di biancheria sintetica, pantaloni troppo aderenti o una scarsa igiene post-coitale sono stati individuati come potenziali aggravanti, così come lo stress prolungato, che abbassa le difese immunitarie.

Il ruolo del microbiota, soprattutto quello intestinale e vaginale, è oggi al centro di molti studi. Una flora batterica impoverita o alterata può facilitare la risalita di agenti patogeni verso la vescica. Per questo, accanto alle terapie farmacologiche, si fa sempre più largo l’uso di probiotici e prebiotici mirati, così come di integratori a base di estratti naturali – come mirtillo rosso, D-mannosio e uva ursina – in grado di ostacolare l’adesione dei batteri alle pareti vescicali.

Tuttavia, il problema non è solo fisico. Le cistiti ricorrenti hanno un impatto psicologico notevole: ansia, frustrazione, paura del dolore e senso di isolamento sono esperienze comuni tra le donne che ne soffrono. Alcune rinunciano a viaggi, sport, relazioni intime, cambiando radicalmente il proprio stile di vita per paura di un nuovo episodio. Questa dimensione emotiva andrebbe sempre considerata nel piano terapeutico, coinvolgendo anche figure professionali come psicologi o terapisti del pavimento pelvico.

In ottica di prevenzione, è importante adottare comportamenti virtuosi ma anche conoscere i propri limiti. Bere acqua in modo costante durante la giornata (e non solo in fase acuta), urinare ogni 2-3 ore, evitare trattenute prolungate, privilegiare alimenti non irritanti e mantenere una buona mobilità intestinale sono tutte azioni che aiutano a ridurre il rischio di infezione. Ma da sole, spesso, non bastano.

Alcune donne scoprono, solo dopo anni di disturbi, che le loro infezioni erano in realtà sintomo di un’altra condizione sottostante: vaginiti atrofizzanti, sindrome della vescica dolorosa, endometriosi o disturbi del pavimento pelvico. In questi casi, l’approccio multidisciplinare è l’unico che può portare a una reale risoluzione, o quantomeno a un controllo efficace dei sintomi.

In conclusione, chi non riesce a liberarsi dalle infezioni urinarie ha bisogno prima di tutto di una valutazione approfondita e personalizzata. La cistite non è solo una questione batterica, ma spesso un segnale di disfunzioni più complesse che coinvolgono l’intero equilibrio uro-ginecologico e psicofisico della persona. Capire quando e come usare l’antibiotico, riconoscere l’importanza dei sintomi e imparare a gestirli nel tempo con consapevolezza – anche attraverso rimedi sintomatici come il paracetamolo nei momenti critici – è il primo passo per uscire dalla trappola delle recidive e ritrovare serenità.

Articolo Pubbliredazionale
Pubblicato Lunedì 9 giugno, 2025 
alle ore 4:00
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