SenigalliaNotizie.it
Versione ottimizzata per la stampa

Le vite asimmetriche di Erich e Wanda

Due storie vissute a Senigallia al tempo delle leggi razziali, in occasione della "Giornata della Memoria"

Il cancello del campo di Auschwitz

Il professor Erich Malke cenò a casa nostra la sera di un gran temporale. Uomo enorme, alto quasi due metri e largo quasi quanto alto, che salendo il corridoio delle scale toccava su tutti e quattro i lati e strisciava le maniche sull’imbiancatura.

«Per me non si preoccupi, signora» aveva detto accogliendo l’invito. «Un po’ di spezzatino e già mi fa contento»; e l’Angelina, dati i tempi di grande penuria, gli aveva combinato patate in quantità a compensare poca carne in mezzo; accolte però con entusiasmo dall’ospite, il cui intento, non troppo nascosto, era appunto di mangiare patate.

Altre volte il professore veniva nel pomeriggio e mandava giù un ciambellone intero e mezza bottiglia di vermouth. Con quelli in corpo, e con l’aggiunta di uno spirito un po’ paradossale, fronteggiava bravamente il vuoto nero che gli stagnava in fondo. Non parlava volentieri della sua vicenda: era sceso in Italia quando ancora l’Italia era un paese accogliente per gli ebrei del centroeuropa, e una volta per tutte aveva reso noto che ormai non aveva più patria perché, rifiutato dalla Germania, l’aveva a sua volta rifiutata. Non andava oltre, ma il gusto per lo spezzatino con patate, assai prossimo alla commozione, lo tradiva nella sua germanità come le armi Achille travestito da ragazza.

L’arrivo al confino di Urbisaglia è segnalato nei registri della contenzione per l’una di notte del 28 luglio 1940. In quella campagna lui, berlinese emigrato a Milano, s’era trovato bene: per quanto si può stare bene in una bella villa con parco, però sovraffollata, però ogni giorno ispezionata, però a rischio che i fascisti ti consegnino alle SS e quelle ai treni che portano ad Auschwitz.

Wanda Coen è ebrea per metà, e tale circostanza le consente di fare supplenze anche in tempo di leggi razziali al “Maffei” di Verona, il liceo della sua città. Laureata in lettere antiche, in quella stessa estate vince il concorso, si accorda per una stanza presso le Maestre Pie Venerini, scende alla stazione di Senigallia e il 16 ottobre prende servizio al Perticari.

Ha 28 anni; è colta e attraente nel modo anche grasso in cui la descrivono gli alunni più grandi, ma naturalmente elegante e riservata;  non fuma, dà lezione coi guanti e sfoggia d’inverno un manicotto che lei stessa ha ricavato da una pelliccia in disuso; eppure, libera di spirito e indipendente, ha tratti di compiacente  ammirazione – «sono visi aperti e pronti alla simpatia le trenta indimenticabili canaglie del mio debutto d’insegnante» – per la vitalità che anima la classe e per la grazia speciale delle ragazze del ginnasio.

«Non mi erano parse belle a una prima impressione le studentesse del Ginnasio di Senigallia: non avevano l’eleganza e l’aria cittadina delle veronesi; ma poi ne scoprii la varia segreta bellezza, così in armonia con la varia bellezza del luogo. Il chiaro accento marchigiano mi colpì con la musicalità di quelle voci fresche, la loro grazia gentile mi sedusse».

Il 6 aprile del ‘42 Erich Malke è trasferito al soggiorno di Castelraimondo. La nota che segnala il movimento è arida e precisa: 45 anni, nato a Berlino il 3 febbraio 1897 da Sigmund e da Regina Rothstein, indigente, laurea tedesca in economia aziendale.

Il 20 gennaio del ’43 è segnalato a Mogliano, a poca distanza dal luogo del primo internamento; e resta lì dopo l’8 settembre, quando i duecento confinati di Urbisaglia escono dal reclusorio come l’acqua da una brocca rotta e si spargono per la campagna; alcuni di loro ritornano alla villa perché è un freddo cane e non trovano riparo migliore di quello del loro confino. Forse, allettati dalle porte non più sorvegliate, non hanno capito che da quel momento sono entrati direttamente nel raggio d’azione del programma di sterminio dell’occupante nazista. I tedeschi rastrellano tutti e li spediscono al campo di transito di Fossoli, punto di partenza del viaggio verso l’annientamento. Erich è salvo per nove chilometri.

Ogni anno Wanda trascorre le vacanze estive a Verona dalla madre o a Roma dai parenti Coen; ma nell’estate del ‘43 non è il caso che si accosti alla sua parte ebrea; i cugini romani, estromessi dall’esercito e dai pubblici uffici, vivono ormai nascosti; zia Olga e zio Guido, però, vengono deportati e non ritorneranno più. Anche Verona non è una città facile per chi si chiama Coen, perché lì fanno centro le organizzazioni che si occupano di braccare gli ebrei, e per il pericolo comunque costante che un inasprimento della legge possa estendere la persecuzione anche a chi è figlio di matrimonio misto.

L’anno scolastico 1943-44, quello del passaggio del fronte, al Perticari viene inaugurato solo l’8 novembre e va avanti con molte intermittenze: ogni giorno si ripete l’allarme, non ci sono rifugi vicino alla scuola e la frequenza degli alunni è minima perché molti sono sfollati con le loro famiglie. Gli insegnanti non vanno sfollati e restano a disposizione: quando è possibile fanno gli scrutini e tengono i colloqui a Corinaldo per le famiglie dei ragazzi che sono riparate là. Gli esami si tengono nella villa Fedrighini a San Gaudenzio, che è luogo ritenuto più sicuro.

Il preside Berardi si compiacerà di queste prove di coraggio dei suoi professori: alla prima apertura dopo la liberazione, spera – parole sue – di ritrovare «quello stesso spirito di patriottismo e di abnegazione che li ha fatti rimanere al loro posto durante tutto lo scorso anno scolastico, nonostante i pericoli continui cui la città è stata esposta e i bombardamenti aerei e navali cui è stata soggetta».

Wanda però risulta assente nel settembre del 1944, e con lei la professoressa Rossi. «Si debbono essere trovate nell’assoluta impossibilità di raggiungere nuovamente la loro sede – fa mettere il preside a verbale – la prima da Verona, la seconda da Imperia». E veramente Wanda si trova in gravissima afflizione per i tanti pericoli che la assediano – il  fratello minore, arruolato nei servizi segreti americani, catturato dai tedeschi a Trieste e scappato dal treno durante un bombardamento; mancanza di denaro e una salute che va peggiorando giorno dopo giorno. Per fortuna la riprendono al Maffei dove insegna lungo tutto l’anno scolastico 1944-45.

Ritorna a Senigallia l’anno dopo, finita la guerra, e qui rinnova quel trio formidabile e originale che aveva formato in tempi precedenti con le colleghe Rossi e  Spadolini.  Sono tempi in cui, nella carenza di ogni cosa necessaria al vivere, i primi palpiti di libertà le muovono accenti di felice lirismo.

Senigallia le piace,  «adagiata in una dolcezza blanda di colori, di curve colline, di nitide valli», una dolcezza però «senza languore, limpida, come lo schietto dialetto e l’originalità della sua gente»; e da insegnante torna ad osservare con ammirazione «le dolci giovinette del dopoguerra, un po’ spaventate, raccolte sotto l’ala della Chiesa; miti e fiere fanciulle, serrate in gruppi… ornate di belle trecce destinate poi a cadere sulle soglie del Liceo».

Nessuno sa dove sia andato a finire invece Erich Malke; ma si pensa che non si sia mosso dalle Marche: l’accoglienza della terra di confino è stata così soccorrevole, e la popolazione così poco osservante dei comandi dei capi, da suscitare nei pochi sopravvissuti un senso di commossa gratitudine.

Ritroviamo infatti il suo nome in un altro registro, che stavolta è quello dell’Istituto Perticari, dove lui è insegnante di francese per l’anno scolastico 1947-48. L’elenco delle presenze alle riunioni dei professori, tracciato con grafia inclinata e pennino sottile, lo colloca in mezzo a Coen, Defari, Drago, Giomini, Morici, Papalini, Rossi, Spadolini…

Restituito alla libertà e alla dignità personale, Erich Malke insegna per un breve periodo in questo ginnasio, ma lascia una posa di umorismo e di buona umanità. Chi l’ha avuto insegnante – Anita Mostacci per esempio, o Giuseppina Ricci, o mia sorella Licia – associa alla memoria comune il suo modo tra buffo e bonario di chiamare per l’interrogazione la stessa odiamata studentessa: «Fenca Ciofannini…».

E’ lui il secondo professore “di origine ebraica”, come si dice oggi (o il primo, se la Coen è contata mezza ariana), a insegnare al liceo dopo le leggi razziali, e la sua presenza sembra insieme un riconoscimento della qualità intellettuale e un risarcimento delle sofferenze che ha dovuto subire a causa del pregiudizio razziale. Di lui non ci sono memorie autografe come quelle di Wanda, ma un buon numero di aneddoti che lo ritraggono come spirito libero e sognatore.

A cena da noi quella sera raccontò di una cosa che gli era successa (o meglio: che aveva fatto succedere) in un cinema, quando per un contatto era saltata la corrente, e tutti reclamavano all’unisono “lu-ce lu-ce lu-ce”; di lui che si alza di botto e col dito puntato su qualcuno indistinguibile nell’ombra grida forte: «Tu! Ho sentito con mie orecchie. Hai detto “du-ce du-ce du-ce”»; del silenzio che gela la sala, e di lui che si siede contento e soddisfatto per avere imbarazzato l’intera  platea.

E poi, sobbalzando nella mole esagerata: «Sapete cosa ha detto un ferroviere quando mi ha visto seduto in seconda classe avendo io un biglietto di terza? Ha detto: “Senta: suo posto è in altro scompartimento”. E io: “Caro signore, Senta si chiama mia gatta. Senta si chiama mia donna di servizio”. E poi, quando chiedo se posso restare perché in terza c’è olezzo di piedi? “Faccia un po’ lei” mi risponde alla fine per chiuderla lì». E con questa faccenda del “faccia un po’ lei”, francamente impensabile per un tedesco sia pure ripudiato, si regala un refrain da ritrovare ogni tanto nel discorso e con quello sommuovere nuove risate.

Nessuno che non conosca la sua vita sradicata, sequestrata, distrutta e poi   inaspettatamente ritrovata, coglierebbe il senso di rivincita che il professore metteva in simili monellerie.

Per Erich e per Wanda sono anni belli. Lei ormai è una colonna del Liceo, stimata dai colleghi e amata dagli alunni. Osserva con lieve ironia il vivere della città: «il massiccio e arguto dongiovannismo che si annida intorno al Caffè Pizzi» e «la patetica bohème intellettuale che gravita intorno al Giampaoli, accesa di passioni letterarie e politiche», come pure «i colti signori che, appoggiati al muro di una farmacia, guardando passare la fiorente gioventù, pensano ai quadri del Tiziano e di Giorgione e alle novelle di Bandello».

Osserva che «le ultime generazioni hanno una nota più acida, un accento indipendente, un vario colore; si accentua un’eleganza un po’ spregiudicata; le ragazze vivono passioni politiche, agitano problemi, polemizzano con i maschi con la prepotenza del matriarcato all’assalto, partecipano ai concorsi di bellezza, sorridono dai rotocalchi…».

E poi, nel 1951, una notizia da pagare una fortuna al borsino dei commenti: la Coen si sposa. E si sposa con chi? Con mio fratello. Ventiquattrenne, bellezza prestigiosa, intelligenza viva e doti d’artista, era stato suo alunno della quinta ginnasio. Insieme vanno a vivere nella mansarda di Villa Matranga.

Poi, due anni dopo, i due si trasferiscono a San Remo. Ma Wanda ha ancora ha nel cuore Senigallia e collabora da là al quindicinale “Il Comune” dove sono Sergio Anselmi come direttore, Renzo Paci, Lello Mauri, Valerio Volpini, Werther Castelli, Brenno Colocci, Bruno Olivi, Aristide Gabani, Alessandro Baviera, Luigi Grossi e Sandro Celidoni per citare i più noti, con una rubrica che si intitola, appunto, “Nostalgia”. E’ da lì che posso trarre l’autentico delle parole.

«Non ritornerò: ma lo strappo è stato amaro. Senigallia lega con filtri fascinosi».

Erich e Wanda non si incontrano più; ma nonostante le loro vite asimmetriche, anzi proprio a causa di quelle, ha senso accostarli nel racconto della vicenda ebraica del nostro Liceo. Che queste note li vogliano affiancare “in quanto ebrei” è soltanto il principio esplicativo della loro compresenza; però da sciogliere e da abbandonare, come poi progressivamente avvenne quando si dissolse il confine della razza e si allargò il giardino della fraternité. Perché una cosa è l’identità culturale, feconda e molteplice, da far vivere e da conservare; un’altra è la purezza razziale, che fu solo la topica brutale di una scienza asservita alla brama di dominio.

E’ comunque da dire che mai gli israeliti avanzarono pretese sul regime della scuola, e che in quei tempi furono perfettamente liberali, riservando alla contesa tra identità e integrazione il campo che si estende fuori dal cancello.

Anche Erich e Wanda furono così; per quanto Erich sospirasse dalla punta del molo immaginando, come Bert Brecht, che di là finalmente sarebbe stato bene.

Commenti
Solo un commento
leobad
leobad 2014-01-27 19:26:43
Non so ancora se vada alla giornalista Pia Bacchielli o all'autore del libro che questa presenta, Una regione e i suoi campi, di Giuseppe Morgese, presentato oggi a Venezia da Marco Severini e Enzo Carli; ma parlare di una "Auschiwitz nelle Marche" mi pare un po' forzare le cose. Ho alla redazione di pubblicare questa memoria proprio apposta, per dare un segno differente alla giusta memoria degli orrori del razzismo nazifascista. Non correrò adesso il rischio di "revisionismo" e della condanna che Silvana Amati ha proposto che venga inflitta a chi nega l'olocausto, se ricordo che l'atteggiamento della popolazione in Italia, nelle Marche e a Senigallia, non prendeva troppo sul serio le leggi razziali del 1939. Il fotografo Edmo Leopoldi, per esempio, mi raccontava con gran semplicità: "Sai, Carcassone l'abbiamo salvato noi dalle SS", e possiamo immaginare il rischio che correva per tenerlo nascosto. Certo, l'internamento non era uno scherzo, e forse era proprio "una discesa agli inferi" come dice Morgese; ma qualcosa comunque di diverso dalla criminale serietà che ci metteva il nazismo nel perseguire ebrei, zingari e Testimoni di Geova fino allo sterminio. Chi non ci crede legga, o rilegga, quello che scrive Hannah Arendt a proposito dell'Italia. Lo trova in uno dei più bei libri del mondo: "La banalità del male", del 1963. Sarà pure il carattere farsesco che ci riscontra, o per l'inefficienza che già ci caratterizzava, ma "l'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare, e questo perché - aggiunge la Arendt riprendendo le parole di Ciano, quei provvedimenti sollevavano problemi che fortunatamente non esistevano" Abbiamo così pochi motivi d'orgoglio di essere italiani, che non ci conviene proprio negare quelli che ci sono. Perché l'atteggiamento umanitario degli italiani, sempre nel pensiero della Arendt,"fu il prodotto della generale, spontanea umanità di un popolo di antica civiltà". Non solo lo dobbiamo riconoscere: non lo dobbiamo neanche perdere.
ATTENZIONE!
Per poter commentare l'articolo occorre essere registrati su Senigallia Notizie e autenticarsi con Nome utente e Password

Già registrato?
... oppure Registrati!


Scarica l'app di Senigallia Notizie per AndroidScarica l'app di Senigallia Notizie per iOS

Partecipa a Una Foto al Giorno





Cronaca
Politica
Cultura e Spettacoli
Sport
Economia
Associazioni
Fuori dalle Mura