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Sedotta e abbandonata, l’assurda lotta in difesa dell’Onore

La nuova puntata di Screenshot ci parla del sud Italia e di un film di denuncia

una scena di "sedotta e abbandonata", di Pietro Germi (1964)

Puttana, disgraziata, cagna lussuriosa, traditrice e spia. Eccole, alcune delle infamanti accuse che don Vincenzo Ascalone, pater familias siciliano, getta con ferocia addosso alla sedicenne figlia piangente, stuprata, traumatizzata e dunque anche insultata dal padre quando invece avrebbe più bisogno di un abbraccio e comprensione.

Carezze, sudore, carni nude e sesso è ciò che vediamo con gli occhi e con l’immaginazione nei primi minuti del film. Una Stefania Sandrelli sensualissima nella sua timidezza composta, che studia accomodata in sala da pranzo, è Agnese, una minorenne suadente, dolce negli sguardi, aggraziata nei modi. Insieme a lei nella stanza, la dormiente sorella maggiore Matilde, goffa e bruttina, promessa sposa di un amico di famiglia; seduto accanto, il laureando in legge Peppino, che incarna il desiderio segreto, il sogno proibito di Agnese. Un’attrazione corrisposta la sua, ma impossibile da soddisfare. Una bramosa voglia di possedersi, un dialogo fatto di sguardi, di tremori, di sussurri e fughe. Fino al momento in cui Agnese cede al caldo abbraccio di Peppino, suo futuro cognato, lontani dagli sguardi delle famiglie.

Tormenti, disagi, svenimenti e isteria, sintomi del ripercuotersi di un rimorso di coscienza soffocato nello stomaco, atteggiamenti insoliti quelli di Agnese che insospettiscono i genitori apprensivi, onnipresenti e pretenziosi di onniscienza nei riguardi della prole. E quando la madre di Agnese scopre il fatto, incapace di comprendere autonomamente, corre subito dal marito-padrone che, invece, si rende prontamente conto dell’accaduto.
Schiaffi e insulti battono il ritmo delle urla e dei pianti in casa di Agnese, la tensione e la paura che aleggia nelle stanze soffoca d’ansia la povera adolescente deflorata e Vincenzo, non più un onorevole cittadino ma “l’etichettato” padre di figlia disonorata.
Presa coscienza della gravidanza della fanciulla, il sanguigno Vincenzo Ascalone, memorabilmente interpretato dal brillante Saro Urzì, determina un ultimatum che corrisponde a un’apparentemente semplice e logica scelta tra il matrimonio riparatore e la morte per il delinquente Peppino Califano, sulla cui schiena grava l’accusa di molti reati, come l’aver sedotto l’ingenua e minorenne Agnese per trarne nel sesso.

Il giovinotto, dimostra però di essere non solo incosciente e visibilmente impaurito, ma anche un inetto vigliacco che rifiuta ad ogni costo di sposare quella poco di buono di Agnese, resa tale da lui stesso. Difendendosi però dietro la norma popolare nonché maschilista “L’uomo ha il diritto di chiedere, e la donna ha il dovere di rifiutarsi” riesce a convincere i genitori a proteggerlo e se ne scappa da uno zio sacerdote, sperando nella protezione della chiesa, non come autorità ma in quanto luogo sacro dentro le cui mura sarebbe imperdonabile un omicidio.

Gli Ascalone intanto, graffiati nell’animo da quel gesto che come un artiglio ha strappato via dalle loro carni stimatissime l’Onore, vero e proprio cuore pulsante nell’uomo siciliano, si sentono tutelati a ricorrere a qualsiasi gesto per proteggere il nome della famiglia dalle fiammeggianti parole infuocate aizzate nelle bocche del popolo di Sciacca, la città teatro alla vicenda. Vincenzo decide di sacrificare il suo unico figlio maschio, Antonio, interpretato da Lando Buzzanca, commissionandogli l’omicidio di Peppino, un gesto che, se messo a punto, gli avrebbe costato a malapena cinque anni di carcere, in quanto considerato “delitto d’onore”, compiuto in difesa dell’usurpata purezza della sorella minore.

Il delitto d’onore e il matrimonio riparatore sono i temi indagati dalla lucidissima macchina da presa di Pietro Germi, un regista che più di altri suoi colleghi contemporanei, ha saputo ascoltare la richiesta d’aiuto di un’Italia meridionale ancora troppo permeata di “medievalità”, in cui l’assurdità della legge traspare dalle vicende-modello da lui presentate in questo film, e nel capolavoro che lo precede: Divorzio all’italiana.
Uomini che si nascondono dietro un reato identificato come minore perché legittimato da una questione d’onore, d’apparenza, di reputazione, quindi di considerazione altrui per uccidere una moglie della quale se ne ha abbastanza e dalla quale però non ci è permesso divorziare. Ecco il tema del primo film appartenete alla trilogia di denuncia che Germi conduce contro la società italiana, non addentrandosi solo nelle vicende della Sicilia, ma rispolverando anche tante questioni oscure del Nord. Sedotta e Abbandonata non è che il secondo film di tale terzetto satirico, la pellicola tra queste che approfondisce un’altra ineccepibile legge, ovvero quella del Matrimonio riparatore che come una spolverata di segatura assorbe l’unto di certi comportamenti infami ed illegali, quali lo stupro e la violenza carnale su una donna illibata.

Una commedia all’italiana esplosiva, scoppiettante, comica ma anche tormentosa, trapuntata di schiaffi, di urla e di pianti, di incubi, di fughe e di pistole che colpiscono in testa come sassi, di mafia, di chiesa, di sesso, e di nobiltà decaduta, di bizzarri e sfortunati tentativi di suicidio, di sorrisi sdentati e di simpatizzanti per la pastasciutta. Un film che travolge e scompiglia, che solletica l’ilarità ma anche la vergogna e il disgusto, una vicenda percorsa da macchiette indimenticabili, e da caratteristi dal talento indescrivibile, come una gemma preziosa del nostro cinema, stimata e sfruttata anche da Germi, l’espressivissimo Leopoldo Trieste.

Onore è una parola che spesso hanno abusivamente monopolizzato le cosche facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso. Ma è il tempo di sottrarla alle loro grammatiche. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un’ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso” (Roberto Saviano).

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