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L’italiano da Dante ai migranti di Pascoli, passando per gli europeismi di Leopardi

A Liceo E.Medi un'appassionante conversazione del prof. D. Poli al liceo

L'incontro al Liceo E.Medi

No parcheggio” invece dei più corretto “no al parcheggio“, l’uso dilagante di “realizzare” nell’accezione di “comprendere”, mutuata dall’inglese: sono questi alcuni significativi esempi di come la nostra lingua muti, cambi pelle, invecchi e muoia esattamente come un organismo vivente. Un processo inesorabile e inarrestabile, che nell’ottica religiosa di Dante, uomo del Medioevo, rappresentava una corruzione e che per noi, uomini e donne dell’era digitale, abituati alla repentinità dei mutamenti, non costituisce un problema, semmai un progresso o una naturale evoluzione.

Attorno al divenire della lingua italiana e delle lingue in generale e alla riflessione linguistica di tre grandi della nostra letteratura, si è dipanata l’appassionante conversazione tenuta dal prof. Diego Poli, ordinario di Linguistica generale presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Macerata, nell’Aula Magna del Liceo E.Medi, conversazione che ha visto la partecipazione di un pubblico variegato composto da studenti, professori e cittadini.

Nonostante l’indubbia ampiezza del tema, il prof. Poli ha sapientemente dosato erudizione, divulgazione e attenzione per la realtà attuale, partendo dall’utopia della lingua immutabile e incorruttibile che prende forma nel De Vulgari eloquentia di Dante – la lingua dei letterati, della grammatica contrapposta al volgare o meglio ai quattordici volgari dell’Italia del Trecento – per poi passare agli europeismi del Leopardi dello Zibaldone (una miniera di riflessioni di poesia, di lingua e non solo, la cui rivalutazione e pubblicazione si devono a G. Carducci).

Stupisce come nella Recanati del primo Ottocento, alla periferia estrema dell’Europa postilluminista, il poeta dell’Infinito fosse capace di guardare oltre anche in altro senso, auspicando l’adozione nell’italiano corrente di parole antiche ma dal significato moderno – gli europeismi -, parole come democrazia, tirannia e repubblica. Un’apertura analoga si coglie in Pascoli: in un’ottica futurista di disgregazione dell’antichissimo legame tra logica e lingua, fanno la loro comparsa nella lingua poetica della tradizione i versi degli uccelli, i suoni distorti e misteriosi della natura e addirittura il gergo dei migranti, quello straordinario e talora comico impasto di americano e italiano che ha prodotto perle linguistiche come “checche” per cakes (torte) e “stima” per steamer (vaporetto). Una lingua ibrida, quella di Italy, il poemetto pascoliano che raccoglie queste perle, a cui non siamo del tutto estranei e che sarà forse il nostro futuro; secondo il prof. Poli, infatti, la lingua franca dominante sarà un inglese globale, frutto di tanti compromessi e ibridazioni con le lingue locali.

Qual è dunque il senso profondo di tale riflessione? Come dobbiamo considerare la lingua abbreviata dei messaggini che diventa sempre più “iconica”, come dobbiamo porci di fronte a espressioni sempre più correnti come “no biglietti”, “no elezioni” e simili? Progresso o decadenza? Né l’uno né l’altra: questa la posizione del prof. Poli, per il quale occorre vigilare sulla lingua, usando la grammatica come modello di riferimento, non come argine al cambiamento, fermo restando che non si può assecondare acriticamente la naturale evoluzione del corpo di una lingua se questo ne intacca l’anima, l’essenza profonda. In breve, quando abbiamo afferrato un concetto, diciamo pure di averlo “realizzato”, ma non dimentichiamo anche di “averlo compreso”.

da Esposto Cristina,
Liceo Medi

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