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Processo Predieri: l’imputato divulga un suo commento alla sentenza

"Credo ancora nella giustizia e dimostrerò nel processo di appello la mia piena innocenza"

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Alessandro Predieri

Alcune riflessioni soccorrono in merito alla emessa Sentenza della Corte di Assise di Ancona, ed al pregiudizio Predieri-centrico nella emissione di quella Sentenza che assomiglia più ad una zavorra che ad un volano verso la verità: quella verità che il processo, per sua natura, dovrebbe essere testo ad accertare. Perché dico questo?

La Legge non è chiamata a giudicare la morale: giusto o sbagliato? buono o cattivo? bene o male? La Legge è chiamata a giudicare la Legge: legale o illegale? permesso o vietato? legittimo o illegittimo?

La differenza, è sostanziale. Morale: tollerabile o intollerabile? Coerenza. Legge: perseguibile o non punibile? Conformità.
Quando la condanna morale soverchia l’azione legale si può determinare una confisca dei diritti individuali.
Ora, possiamo affermare, da una lettura analitica della Sentenza, che la Corte di Assise di Ancona ha frainteso il proprio ruolo e tradito la funzione che è gli propria.

Ricordiamoci, inoltre, da un punto di vista squisitamente tecnico, che il nostro diritto penale è un diritto penale del fatto, non è un diritto penale di atteggiamento interiore, non è un diritto penale che punisce soltanto per la inclinazione di un soggetto verso il compimento di questo o di quella di determinata attività, rimane un diritto penale del fatto e quindi noi dobbiamo chiederci con riferimento all’imputazione che è stata elevata nei confronti dello scrivente quando può dirsi realizzato il fatto tipico, se vogliamo continuare ad usare questa espressione di esercizio della funzione o di esercizio dei poteri, quando possiamo dire che è stata integrata la riduzione in schiavitù, la violenza sessuale, ecc. E soprattutto con riferimento alla necessità di raccogliere la prova della sussistenza di questi elementi essenziali del reato, dobbiamo porci l’altro problema e quindi dobbiamo porci un altro interrogativo, meglio ancora più importante in sede processuale, cioè dobbiamo chiederci quando può dirsi raggiunta la prova dei detti reati.
Orbene, il giudice cosa fa, se non emettere un condanna o un’assoluzione? Per il giudice la comprensione del fenomeno passa – di norma – in secondo piano; il suo obiettivo è valutare l’aderenza o meno a leggi stabilite.

Nel quid decisum, la Corte di Assise procedente, con grave disdoro, ha utilizzato espressioni che integrano (quantomeno) l’espressione fuori dall’esercizio delle sue funzioni di un parere non generico, non neutro né indifferente rispetto all’oggetto del procedimento su cui era chiamata a decidere (se non addirittura la manifestazione di un vero e proprio convincimento sui fatti di cui all’imputazione).

I dubbi che ab initio imperniavano il processo, del resto, erano copiosi: la amicizia su Facebook fra il giudice a latere dr.ssa Sonia Piermartini (alias, Pier Son) ed il Pubblico Ministero dr. Paolo Gubinelli; la passata carriera da Pubblico Ministero del Presidente dr. Giovanni Spinosa (di cui è innegabile, come forma mentis, l’ereditarietà di una vis accusatoria); il fatto che molti dei giudici popolari, compreso il giudice a latere, erano di Senigallia (sicché l’ha rilevato lo stesso avvocato Roberto Paradisi in udienza: come faceva a saperlo?) e quindi potevano conoscere – plausibilmente – i difensori delle parti civili, oltre ad aver pesantemente subito lo strepitus fori dato dalla mediatizzazione del processo etc.

D’altronde, il corpo delle Sentenza, assomiglia più ad una “indagine sociologica” che ad stesura “scritta in base alle norme di diritto” e conferma, in modo indefettibile, quanto ut supra descritto, ponendo a mente, altresì, che la autorevole dottrina, ha ricavato dall’analisi delle pronunce della Corte costituzionale una triplice connotazione del principio di imparzialità, che impone al giudice di essere fisicamente differenziato dalle parti; equidistante dalle stesse (in astratto, a livello ordinamentale, ed in concreto con riferimento alla specifica vicenda processuale) e portato a pronunciarsi sul merito dell’accusa esclusivamente in base alle prove legittimamente acquisite.

Significative, al riguardo, paiono le innumerevoli falsità contenute in Sentenza (inter alia, che la p.o. Alessia Chiarenza era sempre presente in udienza e che usciva spesso per piangere etc.) le colpevoli omissioni (inter alia, che il teste Luca Piersantelli (unico teste di Elisa Mei) era stato notiziato su Facebook da Simone Bertolini del tenore letterale delle accusa, e che riceveva da questi – costantemente – articoli di giornale che narravano mediaticamente della vicenda processuale etc.) il differente trattamento riservato ai testi della difesa rispetto a quelli delle parti civili (inter alia, tagli decisi dei testi a discarico (ben 15 testimoni); revocazioni di testimoni; trasmissione di atti in Procura per alcune supposte – ma mai provate e del tutto infondate – “false testimonianze” etc.) oltre ad una totale cecità alle centinaia di prove a discarico prodotte a confutazione e smentita di ogni assunto accusatorio e trattate addirittura con tono canzonatorio.

In sommo grado larga parte Sentenza è degenerata in apprezzamenti abnormi, arbitrari o irragionevoli dell’imputato e del dato probatorio, sfuggendo a criteri razionali ed obiettivi. Basti dire che sono state poste in dubbio, fra le varie superfetazioni, financo certificazioni mediche, ossia atti che fanno fede fino a querela di falso, o che è stato dato – irragionevolmente – credito a testimonianze smentite per tabulas.

A dispetto di ogni sforzo storiografico e dimostrativo da parte della Corte di Assise di Ancona, che ha mortificato lo Stato di diritto e che ha umiliato la verità, nel senso che non l’ha mai voluta cercare e quando questa è emersa chiara e nitida durante il dibattimento è stata completamente ignorata, lo scrivente è andato comunque assolto da tutti i capi di imputazione con “assoluzione perché il fatto non sussiste”. Il giudice utilizza questa formula assolutoria per indicare che il fatto di reato, addebitato all’imputato nell’imputazione formulata dal pubblico ministero, non ha trovato riscontro in ciò che è risultato dal dibattimento (cioè non è stato provato); il fatto storico che è stato ricostruito dalla pubblica accusa non rientra nella fattispecie di reato dal punto di vista degli elementi oggettivi. Questa formula prefigura la cosiddetta assoluzione piena.

Certamente non ho mai smesso di credere nell’amore e nella giustizia. Sono sereno e resto convinto che dimostrerò la mia piena innocenza in appello anche per l’ultimo reato superstite.

da Alessandro Predieri

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