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“10 dicembre, solo un silenzio assordante”

Il resoconto di Giulia Curzi sul doloroso ritorno a scuola dopo i tragici fatti di Corinaldo

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Cordoglio al Perticari

È il 10 dicembre 2018, quando non trovo più il coraggio di guardare negli occhi i miei compagni. Troppa paura di essere scalfita da quegli sguardi pieni di rabbia e disperazione. Vorrei stringere le loro mani, guardarli in faccia rassicurandoli con un sorriso, abbracciarli magari… E invece, me ne sto qui, con una penna in mano a sputare parole su un pezzo di carta durante il minuto di silenzio per chi non c’è più.

Non pensavo ci si potesse sentire tanto impotenti di fronte ad una morte così ingiusta. Vestiamo tutti di nero oggi, in Loro onore. Già nell’entrare dal cancello esteriore della scuola, sentivo che c’era qualcosa di diverso nell’aria. All’inizio non sapevo cosa fosse, poi, entrando nell’edificio ho capito. Silenzio. Era il silenzio a regnare. Nessuno oggi trova il coraggio di urlare l’arrivo dei prof, di ridere a crepapelle con il compagno di banco…

La classe di Asia è di fianco alla nostra, sento pianti e lamenti provenire da lì, in corridoio, un via vai di anime in pena, di amici che oggi si ritrovano con un vuoto immenso e un dolore lancinante in mezzo allo stomaco. L’atmosfera è devastante. Troppo dolore da sopportare, ma bisogna affrontarlo prima o poi. Ah, ecco le telecamere, non so che pensare. Un momento così delicato dovrebbe essere custodito solo tra le persone coinvolte, ma d’altra parte tutti devono sapere cosa ha portato questa tragedia nelle vite di ognuno di noi. Nessuno escluso. Vedo i rappresentanti del mio istituto fare un’intervista sotto lo striscione in onore delle vittime che dice: “Da un concerto si esce senza voce, non senza vita.” Sento il pianto che piano piano sale sempre più su, poi si blocca in gola, si spezza, lo rimando giù dolorante… non so precisamente da cosa si origini, un insieme di emozioni che hanno un comune denominatore all’origine, la morte, ma che da lì si ramifica e acquista mille altre sfaccettature.

È passata solo la prima ora e sono già esausta. Le parole iniziano a sgorgare, ragionamenti sull’accaduto, frasi di rabbia forti, piene di dolore. Non una frase rassicurante. Quale potrebbe esserlo di fronte ad una tragedia simile? Ancora non so bene che comportamento adottare, parlo d’altro per distrarmi dal macigno che mi ritrovo sullo stomaco senza volerlo, nessuno di noi lo voleva. Sorrisi imbarazzati, quasi spaventati. Abbracci strazianti di gente in lacrime. Distolgo lo sguardo, non sentendomi degna di prender parte a certi momenti. Ho la nausea. È tutto troppo pesante. Si vede ad occhio nudo e si sente senza dubbio un ritmo ben preciso, incalzante, senza fine, a tratti silenzioso che piano piano aumenta in mormorii, discussioni, via via sempre più forti fino ad esplodere in un triste lamento accompagnato dalle lacrime per poi cessare e ricominciare nuovamente più tardi.

Visi curiosi sì affacciano alle finestre. Siamo solo a metà della seconda ora.
Terza ora. Il tempo sembra essersi fermato, non passa mai. Come il tempo, non passa la tristezza. Al diminuire delle ore restanti, aumenta il numero delle telecamere, dei giornalisti e delle persone in lacrime. Il mio prof. di matematica è assente. Possiamo immaginare tutti il motivo, perché il suo nome è Piergiorgio Girolimini e oggi, invece di festeggiare per la verifica di fisica scampata, il pensiero della classe va a lui, rimasto a casa a piangere la sorella defunta, Eleonora.
Altri giornalisti.
Altre lacrime.
Silenzio.

Le persone più fragili o semplicemente le più colpite sono nella classe di Asia, piena di rose e bigliettini, accompagnate da una psicologa.
È dura, è veramente dura.

Ho paura. Paura che tutto cambierà e che niente sarà come prima. Ho fame, ma non me la sento di passare davanti alla Sua aula per raggiungere le macchinette. Temo di mancarLe di rispetto. L’intervallo, al contrario di tutti gli altri giorni è passato in maniera inesorabilmente lenta, niente schiamazzi lungo il corridoio. Ora, c’è gente che cerca di ripercorrere gli eventi di quella fatidica sera, tentando di capire, di dare un senso a tutto questo, ma tutti sanno che non c’è nè giustizia, nè logica. Sguardi increduli e attenti di chi ascolta testimonianze di superstiti. Campo di guerra. Morte. Per la prima volta oggi esco dalla mia classe, vado in cerca di due mie compagne di squadra che quella sera erano con Asia. Abbraccio Valentina ormai svuotata da tutte le lacrime piante nelle ore precedenti. Poi vedo Anita, girata di spalle, così piccola, così fragile. Si gira, mi vede, inizia correre verso di me e mi abbraccia in maniera così forte da lasciarmi senza fiato. Non avrei mai potuto immaginare che tale forza potesse uscire da una così docile creaturina. Ma lei, colma di dolore, rabbia e disperazione, un fiore dolce e innocente spezzato dalla morte, mi abbraccia, trasmettendomi una tormenta di emozioni tragiche. Io non so che dire se non: “Lo so, lo so, piccola, lo so che è dura…

Ma oltre a questo non so in che modo confortarla. Piange, ha il visino bagnato, le asciugo le lacrime, le sorrido, cercando di farla stare meglio, ma cosa, in questo momento può farla soffrire di meno? Io, la risposta, non ce l’ho. Prima di andarsene, mi urla: “Lei era con me quella sera, io mi sono salvata e Lei no!“ Ed esplode in un altro, tragico pianto pieno di rabbia. Rimango a guardarla andare via per un po’, con un senso di incredibile impotenza. Non è giusto, tutti noi lo sappiamo. Finito l’intervallo è arrivato il momento che un po’ mi aspettavo. Il brainstorming con la prof. di italiano. Quelli che prima erano solo pensieri confusi ora si trasformano in parole pronunciate, in emozioni manifestate. Fatte di sentimenti veri, ancora bollenti.

Credo che sia importante affrontare questo dolore che ci pervade, non so come, ma primo poi bisogna farlo. La testimonianza di Alice ci fa rimanere tutti pietrificati, lei c’era. Ci racconta che da dove è uscita lei, si vedeva tutto, vedeva le facce violacee dei ragazzi schiacciati dalla folla, le mani tese verso di lei e il suo gruppo di amiche come a chiedere aiuto. Più tardi, gente svenuta per terra, piena di graffi e sangue, viola in volto. Scenari spaventosi di violenza, terrificanti. Alice non riesce ad affrontare ancora il suo dolore, come lei altri non hanno più mangiato e dormito dopo l’accaduto. Lo chiamano “blocco emotivo”.

È la quarta ora quando riesco a guardare tutti miei compagni in faccia, vedo occhi gonfi, sguardi imbarazzati di chi in qualche modo è meno coinvolto, chi guarda un punto fisso, chi invece guarda ovunque, magari in cerca di un qualcosa che sia in grado di farli sentire più protetti, perché almeno per oggi nessuno di noi si sente protetto. È il turno di Nicoletta, che ci racconta come è venuta a sapere della scomparsa della sua cara amica Asia.

Ha cercato di inviarle un messaggio quella mattina, un messaggio che non verrà mai letto. Le labbra di Nicoletta tremano, non riesce a stare ferma con le mani, le lacrime della mia amica mi fanno soffrire, ma una parte di me non si sente degna di piangere insieme a lei. Mi tengo tutto dentro, non del tutto, continuo a scrivere, è l’unica maniera che conosco per far defluire questi malinconici pensieri. Nicoletta è piena di rimorso, avrebbe voluto dirle cento volte in più “ti voglio bene“, e viene sovrastata dal pensiero che per lei sia troppo tardi ormai. Ci spostiamo alle finestre, assistiamo in silenzio dal primo piano alla diretta televisiva della Rai. Tutta la scuola è in ascolto e molte classi si sono riversate nel cortile, la giornalista dice: “Mi ha stupito in quanti sono venuti a confidarsi da me questa mattina, vogliono far sentire la loro voce!“ Più che voce, personalmente avrei usato le parole ‘urlo straziante’. Finita la diretta, un applauso che lascia poi il posto al sovrano della giornata, il silenzio.
Ultima ora.
Non sembra finire mai.
Provo a condividere le mie paure con alcune delle mie amiche.
È tutto così surreale.

Proviamo a parlare d’altro, proviamo a distrarci in qualche modo, ma siamo tutti troppo scossi per riuscirci. Prendiamo coscienza del fatto che quello a venire sarà un periodo troppo lungo e buio. La morte, nella sua tragica essenza, ha riunito sotto il dolore, l’amicizia e il rancore tutti i componenti di questa scuola, dagli studenti, ai bidelli, ai professori. Per tutto il fine settimana e per le quattro ore e mezza di questo tragico lunedì mattina non ho versato neanche una lacrima, come se fossi in una bolla e tutto ciò che accade intorno a me cercasse di colpirmi, ma viene spinto via. Ma ora, riguardando le rose bianche di Asia e rileggendo queste mie parole ai miei compagni, esplodo. Piango. Fa troppo male. Mi sento in un certo senso sbagliata a farlo perché io non ho perso i miei cari, erano persone a me sconosciute o appena incrociate nel corso della mia vita, ma rivivendo lo straziante dolore attraverso le persone a me vicine, posso confermare una cosa; in qualche modo, quelle persone sono diventate parte cruciale della mia esistenza perché le loro morti, inequivocabilmente ingiuste, hanno segnato nel profondo la mia coscienza, rendendoci tutte persone cambiate, più consapevoli.

Fa rabbia pensare che ci siano voluti avvenimenti tanto vicini a noi e incommensurabilmente tragici per renderci Italia, ma purtroppo è così. È nel momento in cui esco da scuola che realizzo. Sono le 13.00 del 10 dicembre 2018, quando mi sveglio come da un brutto sogno, solo per rendermi conto che si tratta della realtà e che queste sono le nostre vite, così preziose, così effimere. Ancora con le lacrime agli occhi vedo le teste basse dei miei compagni. Questo bruciore che ho nel petto che mi accomuna a tutti loro, difficilmente smetterà di cessare. Per Senigallia e dintorni oggi è un giorno nero che ha scavato nel profondo tutti noi. Oggi fa male fa male sul serio.

Mi sento di dare questo unico consiglio a chi sta leggendo le mie parole. Non portiamo altra tristezza vedendo questo bruciore come fuoco che devasta, vediamolo invece come fuoco che illumina e dà speranza. Facciamolo per Loro. Accompagno nel dolore e nel rammarico tutti miei amici che erano anche loro e le famiglie di Asia, Daniele, Emma, Benedetta, Mattia ed Eleonora, con la speranza che possono affrontare nel migliore dei modi questi anni a venire.

di Giulia Curzi 3C
Liceo Scientifico Enrico Medi, Indirizzo Linguistico
Senigallia

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